Ai confini dell'uguaglianza: il sesto senso di Mika

Quante volte ci siamo sentiti inadeguati di fronte a una persona sorda? Quante volte avremmo voluto creare un contatto, senza riuscire a trovare un modo per superare l’imbarazzo iniziale e abbattere il muro di silenzio che ci divideva? L’esperienza quotidiana del lavoro con i sordi ci insegna che non esiste solo il disagio di chi vive la sordità sulla propria pelle, ma che c’è anche il vissuto (non semplice) dell’udente, che spesso percepisce il silenzio come un confine invalicabile. E’ una difficoltà che richiede la curiosità di esplorare territori nuovi, la voglia di trovare un terreno comune di scambio, il desiderio di andare oltre se stessi. Spendendo tempo ed energie.

Abbiamo deciso di pubblicare il contributo di Chiara Cuminatto - giovane scrittrice che lavorando in una fattoria australiana ha conosciuto un ragazzo sordo, con cui ha stretto un rapporto d’amicizia unico e speciale - perché ha avuto il coraggio di farci riflettere su un aspetto importante eppure incompreso, ovvero il fatto che “le energie spese per stare con qualcuno sono inversamente proporzionali a quelle usate per imparare qualcosa di nuovo”.

La sua è una testimonianza che parla di accoglienza e di integrazione, dove la dimensione “di fatica” che appartiene all’incontro con il diverso si trasforma in energia creativa e in un percorso tutto da sperimentare. Un percorso che fa riflettere sui limiti e sulle tante “staccionate” mentali che ci paralizzano, privandoci di occasioni insolite di conoscenza e arricchimento.

AI CONFINI DELL’UGUAGLIANZA: IL SESTO SENSO DI MIKA

“Ho conosciuto Mika tra le pareti marroni di un ostello. Ho visto i suoi occhi blu e i capelli biondi. Stava facendo colazione con un cucchiaio arancione e una tazza bianca con dei piccoli tondi celesti, osservava una grossa scatola rossa piena di cereali posata su un lungo tavolo grigio. I colori mettono allegria. Mi guardò e sorrise. Io lo guardai e sorrisi. Poi me ne andai in fretta. Dicono che i sordi sentano suoni che non esistono. Nella stanza regnava un silenzio potente. Io non dissi niente, non feci rumori né mostrai alcun tipo di emozione davanti a lui, ma credo che in quel momento, quel ragazzo sordomuto, sentì l’agitazione del mio respiro, la velocità dei miei passi che salivano le scale, l’imbarazzo delle domande che feci a me stessa, il frastuono dei dubbi che si attaccano puntualmente alle novità. Mi resi conto che lui, non sentendo, udì qualcosa di più reale di tutti coloro che intorno non si accorsero di niente.
Ero corsa via.

La fatica durata in quello scatto improvviso era direttamente proporzionale a quel più grande sforzo faticoso che sta nell’accogliere una diversità. Perché per quanto possiamo essere buoni, accoglienti, altruisti, per quanto vogliamo amare tutti, fuggiamo istintivamente da ciò che ci costa energie inaspettate e più qualcosa si allontana da ciò che siamo, più diventa difficile andarvi incontro contenti.
Con chi è simile a noi non abbiamo bisogno di fare sforzi: stare insieme diventa automaticamente una condivisione di ciò che ci piace fare. Uscire, fare lo stesso sport, condividere una passione, scegliere lo stesso film, ridere per le stesse cose.

Ma la diversità è fatica: decidere di andare in un locale quando vorresti stare scalza a ballare in una stanza, giocare a calcio con amici impazziti mentre l’unico sport che ami è la pallavolo, andare a fare shopping invece che suonare, guardare un cartone animato perché chi è con te ha paura dei thriller che tanto ami, sforzarsi di capire una battuta che non trovi divertente.
Ci allontaniamo così da chi non ci assomiglia, ma dimentichiamo che le energie spese per stare con qualcuno sono inversamente proporzionali a quelle usate per imparare qualcosa di nuovo: più le persone ci assomigliano, più è difficile scovare qualcosa da apprendere da esse, più invece si distanziano da noi per quello che sono e più è semplice e immediato cogliere qualcosa di inaspettato da rendere nostro.
Se ci ricordassimo di questo forse impareremmo di più e ignoreremmo di meno.        

Mika non può parlare e non può sentire. Stare accanto a lui vuol dire smettere di mangiare mentre stai cenando per alzarti, andare a sedergli accanto e scrivere su un foglio ciò che vorresti dire. Vuol dire sentirsi a disagio se inizi a ballare contenta sul ritmo di una canzone che lui non può ascoltare. Vuol dire smettere di ridere per le battute di chi è lì con voi per spiegargli con un messaggio cosa stanno dicendo di divertente.
Bernadette diceva: “Chi ama non prova fatica o ama quella fatica”.

Non ho mai negato di provare fatica nel voler bene a qualcuno. La diversità stanca, ma ho amato quello sforzo e lo amo tutt’ora.
Mika nasce in Finlandia 29 anni fa senza poter parlare e sentire e all’età di 5 anni gli viene diagnosticata la sindrome di Usher che lo porta a perdere l’uso della vista in modo graduale.
Quando ci siamo conosciuti lavoravamo entrambi nelle fattorie raccogliendo limoni e mandarini. In Australia per noi ragazzi che veniamo a vivere un’esperienza di viaggio e lavoro, le opportunità sono tante ma diverse da quelle possibili nel proprio Paese. Le posizioni richieste appartengono solitamente al mondo dell’ospitalità o a quello delle campagne. Questa limitazione porta sicuramente chi comunica in modo diverso dagli altri a non poter valutare come plausibili la maggior parte delle possibilità.

Mika mi ha insegnato le basi del linguaggio dei segni, mi ha fatto capire come vivere la vita in un silenzio che dice tutto, ma soprattutto mi ha ricordato che troppo spesso pensiamo a ciò che ci manca e non possiamo avere, rovinando così tutto ciò che abbiamo.
Non abbiamo le energie necessarie per concentrarsi su tutto, quindi l’assenza di mezzi per fare qualcosa è in realtà un elemento positivo perché ci permette di scegliere con maggior semplicità ciò che fa parte di noi. I nostri limiti non devono frenare o rattristare, ma delimitare ciò che siamo e renderci unici nel nostro campo. Ed è in un campo che Mika me l’ha ricordato. Ed è ad un campo recintato e chiuso che paragono ciò che siamo. Ci appoggiamo alla staccionata insoddisfatti osservando tutto ciò che sta al di fuori di essa, ciò che non appartiene a noi. Lui avrebbe avuto ogni giustificazione possibile per comportarsi così, ma non lo ha fatto.

Respinto da ristoranti e bar, rifiutato da alcune farm per l’impossibilità di sentire il rumore di trattori e macchinari, ha deciso di voltarsi, di appoggiarsi a quel recinto che definisce la sua identità e osservare ciò che gli appartiene. Così ha preso la sua sordità e l’ha trasformata in una concentrazione senza distrazioni, ha guardato il suo non poter parlare e ha fatto sì che diventasse la sua costanza nel lavoro dove tutti interrompevano il ritmo di raccolta con parole, domande e canzoni.

È diventato uno dei picker migliori pur non essendo veloce. È diventato uno degli oratori migliori pur non potendo parlare. È diventato uno dei migliori confidenti pur non potendo ascoltare alcun suono. È diventato un esempio perché mi ha insegnato nuovamente a focalizzare l’essenziale senza perdersi guardando il giardino del vicino. Mi ha ricordato che anche quando intorno nessuno parla la tua lingua, esiste un linguaggio che sa comunicare con la stessa potenza di un grande discorso.
Siamo diversi. Tutti quanti. E Mika mi ha fatto pensare ancora una volta a quanto la distanza che divide due persone diverse non sia una lontananza da eliminare o fuggire, ma un percorso da attraversare gustandone a pieno i tanti colori e le tante sfumature, per tornare nel proprio campo con la voglia di curarlo e arricchirlo mutando la staccionata da limite che soffoca a stimolo a fermarsi, appoggiarvisi e apprezzare tutto ciò che abbiamo.
Ho visto nell’assenza di un senso di percezione, la presenza di un sesto senso, il senso di responsabilità e ho capito che l’handicap maggiore in realtà appartiene a me”.

Il sesto senso di Mika