Difendere gli ideali fino all'anticonformismo

un articolo di Enrico Dolza uscito nel n.1 2014 della rivista Effeta

Farsi guidare dalle domande non dalle risposte.

Perseverare nella ricerca delle verità di cui nessuno parla.

Stravolgere i progetti quando diventano immobili.

Avere il coraggio di accettare degli incarichi che non ci appartengono, che non conosciamo, che non avevamo contemplato per noi.

Intervenire, mettersi in gioco in prima persona.

Essere incoerenti per muovere nuove possibilità.

La prima volta che ho incontrato Adele, la Fondazione Gualandi ancora non esisteva, se non forse in quel suo sguardo tagliente e vagamente indagatorio con cui mi accolse al numero  47 di via Nosadella, in un ambiente che sapeva di preti e di suore, impolverato e un po’ oscuro. Adele aveva gli ultimi numeri di Effeta appoggiati su un grande tavolo di legno antico e annerito. Li fissava con aria un po’ sospetta ed incredula: quel ritratto di Don Giuseppe Gualandi su uno sfondo azzurrino sembrava proprio non convincerla. Me li sporse, quasi senza presentarsi e mi disse che aveva sostituito un sacerdote centenario nell’incarico di redazione della storica rivista degli Istituti Gualandi “per sordomuti”, come ancora si diceva allora.

Era, credo, il 2001 e stava cominciando la mia collaborazione con Adele e con quello che sarebbe da lì a poco diventata gradualmente la Fondazione Gualandi. L’avventura di Effeta, come qualunque altro percorso, fu per Adele soprattutto l’inizio di una lunga e profonda avventura intellettuale, in questo caso alla scoperta del mondo dei sordi. Adele, che all’epoca del nostro incontro aveva già vissuto parecchie vite, insegnante, dirigente scout, mamma e chissà quante altre cose ancora, non era certo di quelle persone che fanno le cose tanto per farle e soprattutto non lasciava al caso le sue infinite domande, e la convinzione, che ora ho fatto mia, che nella vita bisogna porsi interrogativi piuttosto che elargire risposte. Le risposte spesso non le abbiamo, le domande invece ci guidano lungo percorsi inesplorati. E la genialità di Adele, così come la nostra perenne fatica di seguirla, stava proprio nell’intravedere strade dove nessuno le aveva neppure intuite. E percorrerle per realizzarle, con un mix di irriverenza, testardaggine, di gusto della provocazione e del paradosso, di dolcezza nascosta sotto una scorza amara che spesso sapeva ferire, ma che pure imponeva di riflettere.

E così il viaggio di Adele tra i sordi non è certo stato un viaggio qualunque. Lei che non ne aveva mai visto uno in vita sua quando arrivò al Gualandi, ormai anziana secondo i canoni anagrafici della nostra società, ha finito con l’imporre con il suo approccio visionario, un’impronta al mondo dei sordi bolognese di oggi che è impossibile non riconoscerle.

Adele credeva innanzitutto nella prima infanzia e sapeva diventare ostile al limite dell’educazione nei comitati e nelle riunioni di rete quando le pareva che venisse perso del tempo prezioso per i bambini. Sapeva che il tempo dell’infanzia non è un tempo qualunque, per nessuno, tanto meno per i sordi, la cui disabilità nella vita adulta dipende dalle possibilità che vengono loro offerte per acquisire il linguaggio, facoltà umana tra le più delicate e complesse, che trova proprio nei primi anni di vita del bambino il suo tempo unico e insostituibile per svilupparsi. Adele sapeva che il tempo perso coi i piccoli era tempo irrecuperabile e non sapeva perdonare chi perdeva tempo: le cose andavano fatte e subito e come diceva lei. Tutto il resto, la burocrazia, i comitati, le infinite corrispondenze, gli incontri di rete, erano per lei un fardello ridicolo e opprimente che avevano il potere di farla infuriare.

La sua fiducia nel potere della prima infanzia sì è naturalmente riflesso direttamente in ciò che ha creato con determinazione, risorse e fatica, ridando alla Fondazione Gualandi un ruolo di primo piano, non solo come gestore di servizi, ma soprattutto come motore dell’innovazione: dotare Bologna dello screening neonatale nei reparti materno-infantili degli ospedali, incredibilmente assente, l’apertura di un asilo nido e di una scuola dell’infanzia impostati con modalità educative del tutto originali, la sua attenzione alla formazione degli insegnanti, che riteneva, voce non isolata, uno degli anelli deboli del sistema complessivo di presa in carico e cura dei piccoli sordi.

Per realizzare tutto ciò Adele non ha mai esitato a mettersi in contatto coi migliori professionisti da tutta Italia, che la colpivano per l’originalità del loro pensiero, delle loro ricerche e dei loro approcci e che invitava al Gualandi per collaborare ai suoi progetti. Persone che poi amava interrogare a fondo, non di rado mettendoli anche in difficoltà, perché voleva essere ben certa di aver colto l’essenza delle loro proposte e valutarne l’efficacia. E così ogni volta attivava una curiosa ed imprevedibile campagna acquisti di docenti universitari, ricercatori, studiosi, “sapienti” di vario tipo, come amava chiamarli lei, a cui nessuno si è mai sottratto. Chissà perché, nessuno ha mai detto di no ad Adele e ai suoi progetti.

La sua fiducia nei poteri della prima infanzia è stata probabilmente anche la chiave interpretativa del suo sentimento ondivago nei confronti della Lingua dei Segni. Se dovessimo trovare un aggettivo per descrivere le relazioni di Adele con il mondo, questo sarebbe probabilmente “incurante”.  Ecco, incurante di apparire coerente, Adele aveva avviato in Fondazione corsi di Lingua dei Segni, di vari livelli, che decise di chiudere improvvisamente qualche anno dopo. Io credo si fosse persuasa che la Lingua dei Segni non andasse demonizzata, ma che tuttavia fosse la prova tangibile che gli interventi nei confronti dei piccoli sordi fossero tuttora carenti e privi di una progettualità efficace il cui obiettivo non potesse essere altro che la parificazione comunicativa con la maggioranza udente, che utilizza le lingue orali e non quelle visivo-gestuali. Lo screening neonatale, una presa in carico da parte di professionisti motivati, preparati e capaci di lavorare davvero in équipe, una buona scuola nella prima infanzia, la centralità della pedagogia e dell’educazione sulla medicina, non potevano che portare alla possibilità logica e preferibile di abilitare i piccoli sordi alla lingua italiana. Non è difficile riconoscere quest’impostazione negli attuali servizi della Fondazione, con una lingua dei segni del tutto assente nei servizi per la prima infanzia, ma invece utilizzata ampiamente come strumento di sostegno e di aiuto per gli adulti in difficoltà. Adele ed io, su questo punto, non abbiamo mai avuto visioni del tutto uguali, eppure ancora adesso non posso che ricordare con un sorriso le provocazioni che fino all’ultimo mi ha lanciato, in un divertente gioco delle parti che imponeva ad entrambi di indossare i panni dei difensori della causa, ma che finiva con l’indurci inevitabilmente a riflettere meglio e di più sulla “questione delle questioni” dell’educazione dei sordi.

Incurante. Incurante degli equilibri politici e professionali , incurante della diplomazia, incurante di trovare una sintesi tra le varie posizioni, sferzante nei confronti di persone e istituzioni, Adele ha finito anche per collocare la Fondazione in una equidistanza “distante” da entrambe le associazioni di rappresentanza del mondo dei sordi: Ens e Fiadda. Di entrambe probabilmente tollerava poco i settarismi e forse anche qualche atteggiamento che riteneva superficiale ed era, al di là di qualche convenevole di facciata, altrettanto poco tollerata da loro. Adele si presentava sempre, anche non invitata, alle occasioni informative e formative proposte dalle associazioni, voleva capire cosa si muovesse nella sua città, quali fossero le proposte, i contenuti, i servizi. Non di rado si è lanciata in interventi pubblici, duri e polemici, che credo non siano stati mai davvero capiti per quello che erano e cioè manifestazione dello spirito provocatorio con cui intendeva suscitare un dibattito, un interrogativo, sbattere sulla faccia di tutti la sua profonda e umana frustrazione per la situazione dei troppi sordi che incontrava e che riteneva vergognosa per una città e per un Paese civili e per migliorare la quale stava dedicando gli ultimi 15 anni della sua vita.

Mi rendo conto di aver forse scritto cose scomode, ma sono certo che Adele le avrebbe preferite ad un racconto agiografico.  Sono certo che la vera eredità di Adele per tutti noi stia infatti nel coraggio della verità, nell’indipendenza di pensiero e di azione, in un difficile, perché reale, anticonformismo, nell’accettazione del disequilibrio e dell’incoerenza come forma di interrogativo perenne su sé stessi, su dove si sta andando e su dove si vuole andare

Enrico Dolza lavora tra Torino e Bologna, dove si occupa da parecchi anni di educazione dei sordi e di lingua dei segni, lavorando con una fitta rete di istituzioni, università e associazioni italiane ed estere. Viaggiatore e amante dei libri, ha avuto la fortuna di incontrare nei suoi peregrinaggi anche Adele.