Essere la propria vocazione

Conversazione con Maurizio Millo

Custodire quello che amiamo essere.

Credere nell’impegno.

Prendersi tempo, un tempo lento che vada al passo delle sfumature delle quali siamo fatti.

Sapere che prendere parte nel mondo può voler dire dover a volte prendere strade non volute o prevedibili.

Trovare consapevolezza nelle imperfezioni.

Essere responsabili della propria libertà.

dalla rivista Effeta n.1-  2014

Quali sono le difficoltà nel fare educazione oggi?

Uno dei problemi che vedo nell’educazione moderna e che immagino, perché in realtà non ho nessuna esperienza diretta, è l’interazione fra socializzazione e educazione.

Facilmente oggi si tende a fare la socializzazione immaginando che si faccia educazione, confondendo così le due cose.

La socializzazione è la capacità di interazione con gli altri, di stare bene insieme e di rapportarsi. In questi termini è la base necessaria su cui poter innestare l’educazione: senza un tasso “accettabile” di socializzazione non partono processi educativi.

Questo mi sembra ancora più vero per chi abbia una disabilità, perché essendo forte il rischio di emarginazione, la socializzazione diventa un presupposto necessario a favore di un buon inserimento nel gruppo, condizione prima per avviare un processo educativo.

Però l’educazione è un’altra cosa e per certi versi diventa, dopo certe fasi, l’opposto.

Si può quindi dire che la socializzazione è una disposizione di apertura e accoglienza. In che senso non basta a sé stessa? Quali sono gli effetti contrari che si potrebbero verificare?

La socializzazione, se vogliamo stressare i termini, è quella che crea degli individui tutti uguali, ben inseriti nella società perché nessuno crea problemi.  E’ così ben socializzato che va d’accordo con tutti, che è accettato da tutti… Questi generi di frasi, che non sono mai vere fino in fondo, sono però significative del fatto che a volte la socializzazione, senza volerlo o in alcuni casi volendolo, può portare a degli esiti di omogeneizzazione. Dietro a questo a volte ci sono dei disegni della società e del suo bisogno di persone che si inseriscono nella produzione e che non diano fastidio, qualche altra volta ci sono delle oneste conseguenze non volute. Faccio un esempio: si insegna ai bambini a giocare a pallone e per giocare bene a pallone bisogna essere organizzati, conoscere le regole, rispettarle, rispettare l’arbitro etc. E’ una bella cosa di per sè giocare a pallone; il problema è che le regole del pallone potrebbero essere sbagliate e nessuno se ne accorge in questa maniera, perché ci si abitua a giocare a pallone. Per giocare a pallone le regole sono giuste, potrebbe essere sbagliato il gioco del pallone.

E questa capacità di previsione e di riflessione rientra  invece nel processo educativo?

Il processo educativo è quello che a un certo punto rende liberi anche dal precedente e contemporaneo processo di socializzazione.

Tutti socializziamo perché nei diversi ambiti della nostra vita dobbiamo rapportarci con molte persone e questo è un processo continuo e indispensabile. Se un ufficio non funziona, ad esempio, è necessario da un lato acquisire la capacità di capire ciò che non funziona e dall’altro la capacità di come comunicarlo agli altri, in modo da ottenere un cambiamento grazie ad un gioco di squadra intelligente. In questo senso il processo di socializzazione continua sempre, è delicato e per certi versi anche molto positivo, anche se non va confuso con l’educazione.

La distinzione tra educazione e socializzazione sta nella libertà che ne consegue.

La vera libertà è data dall’educazione perché è quella prima di tutto che consente di distinguere un caso dall’altro e quindi il caso in cui è giusto seguire le sole regole della socializzazione oppure è quello in cui è necessario impegnarsi a seguire strade alternative e a capire come farlo.

Una libertà davvero molto difficile da saper gestire…

Oggi mi sembra che questo sia sottovalutato e una delle prove è che si fa fatica a chiedere ai giovani di impegnarsi personalmente a costo di qualcosa, perché si tende molto di più a fare le cose di massa. Anche i social network in realtà sono un meccanismo che nella sua utilità per condividere, smuovere e commuovere prevede essenzialmente solo la socializzazione.

Nel caso di persone con disabilità tra l’altro, diventa talmente forte la necessità di inserimento e socializzazione che si può addirittura dire non dobbiamo pretendere troppo, non dobbiamo immaginarci eccessivi impegni che altrimenti sarebbero frustranti con il risultato di non pretendere nient’altro che un buon inserimento nella società come ad esempio che sia in grado di essere accolto, che sia lui a essere in grado di accogliere gli altri, trovare la sua anima gemella sperando che ci sia etc etc. Che sono tutti meccanismi sacrosanti, in cui molto spesso non è sempre facile distinguere i confini precisi tra educazione e socializzazione, ma che sono essenzialmente meccanismi di socializzazione.

Però, quello che è abbastanza facile da distinguere, è lo spirito con cui si fanno le cose, che finisce per far cadere un certo impegno o una certa attività nel campo della socializzazione o piuttosto nel campo dell’educazione.

Parli di spirito. Anche questa è una disposizione/attitudine umana o qualcosa di più?

Faccio un esempio scout, la promessa e il suo impegno nella traduzione adulta.

Facendo la promessa, io prometto, anche se gli altri non fossero d’accordo (quindi non io insieme agli altri, ma io e basta) di impegnarmi. Si promette di rispettare la legge scout anche se è chiarissimo che non lo si farà fino in fondo, ma è una spinta ad andare sempre avanti.

Mi impegno in qualcosa di gratificante e contemporaneamente anche in qualcosa di scomodo, ma indubbiamente in qualcosa che mi da una spinta a crescere.

Io, cioè, mi impegno a diventare ciò che ho promesso di essere e questo strano meccanismo è l’educazione.

L’educazione funziona perché un individuo cerca di diventare quello che ha già deciso ed ha voglia di essere, non perché gli altri, l’ambiente positivo etc…

Oggi si tende a convincere le persone, i giovani a rimanere all’interno di un ambiente buono (come ad esempio quello scout) sperando che questo faccia bene, nel senso che si  spera almeno di evitare cattive compagnie, perché alla fine si fanno esperienze positive e nel frattempo si cresce in maniera buona e si diventa una brava persona. Oggi c’è la tendenza, più di qualche tempo fa, ad esempio a fare firmare tardi agli scout l’impegno, perché c’è la tendenza a dire che non sono maturi per farlo, che non sono pronti, ma si tende a farli entrare comunque nel gruppo in attesa che siano preparati a farlo. Che è in parte il discorso analogo a quello che si fa del perché si fa fare la comunione ai bambini così piccoli? La risposta media della gente è: perché poi li perdi… Però se questa è la risposta  siamo di fronte ad un meccanismo che è più di socializzazione che di educazione perché basato sulla speranza che la gente vivendo un ambiente positivo e adeguandosi a questo, diventi positiva. In realtà poi ci sono molti scout che girano con il broncio, che non sanno perché non vanno in uscita, non sanno perché rimangono, ogni anno pensano di non andare ma poi ci sono gli amici che continuano e continuano anche loro, e quindi, in questo caso il capo scout vive nella frustrazione perché si accorge che non riesce ad incidere davvero sulla crescita dei ragazzi. Questo succede perché si sta facendo poca educazione e molta socializzazione.

L’obiettivo personale di ognuno dovrebbe essere quello di impegnarsi a crescere utilizzando al meglio le caratteristiche che ha e quindi anche i limiti che ha. Questa è l’educazione.

L’educatore deve poter riconoscere le innumerevoli  possibilità del crescere per far raggiungere delle consapevolezze?

Il compito dell’educatore è quello di far capire il senso della vocazione, far capire cioè che ognuno ha una vocazione e che diventa felice realizzandola anche se la strada da intraprendere è difficile. Può riuscire nel compito se pone anche e soprattutto l’attenzione sulle situazioni impreviste, quelle che chiamano a fare cose che non si erano preventivate, perché questo è il vero concetto di vocazione, la chiamata ad uscire verso una terra che non era quella pensata.

Un esempio semplice da capire è quello dei figli, perché anche un figlio che non da “problemi”, ne da comunque tanti e comporta cambiamenti che portano a realizzare la propria vita in modo del tutto diversa da come si pensava. Se si è abbastanza intelligenti, si finisce per apprezzarlo, se si è meno intelligenti si finisce per soffrire perché sembra che non dia la possibilità di realizzare quella che si pensava essere la propria vocazione, perché questa viene confusa con i propri sogni.

Come si può trovare un equilibrio tra sogni e vocazione?

Oggi c’è la tendenza a lamentarsi perché non ci si sente realizzati, perché si fa fatica a capire bene come ci si potrebbe realizzare davvero. Ognuno ha propri sogni e molto spesso  non ci si sente realizzati perché i sogni non convivono con la realtà, con il risultato che cercando di realizzare i propri sogni per certi versi gli altri diventano un impiccio.

Se si entra nell’ottica della vocazione, si capisce che la propria realizzazione e quindi la capacità di essere felice passa attraverso gli altri, che non sono solo ostacoli, come sembra o come anche a volte sono, ma costituiscono la strada vera da perseguire.

Stiamo sempre parlando di confini poco definiti, dove la differenza la fa il grado di consapevolezza di  ogni singola persona. Quali sono quindi per concludere, in una pretesa forse di semplificazione, gli aspetti che più di ogni altro devono guidare un educatore?

Il confine tra socializzazione ed educazione non si sa dov’è, perché è interiore.

L’educatore deve essere attento a capire che l’educazione è un po’come l’altra faccia della socializzazione, ma che è davvero un’altra faccia.

E’ lo spirito con cui si fanno le cose della socializzazione. E’ il modo, è lo stile, è l’impegno.

Le azioni sono le stesse, ma le si fa in modo diverso. E’ come quando si è innamorati che si fanno le stesse cose di quando non lo si è, ma il mondo sembra diverso. E’ la persona che vive le cose in maniera diversa, che gli attribuisce un senso diverso e che di conseguenza hanno un frutto diverso per sé stessi, ma anche per gli altri.

Altro aspetto importante oltre all’impegno, è la consapevolezza dei propri limiti.

Perché scatti la molla dell’educazione le persone devono essere educati al fatto che non si può fare tutto. Per alcuni il limite è evidente, per altri meno. Passiamo la vita senza accettare i nostri limiti perché riusciamo a mascherarli. 

Infine una caratteristica che dovrebbe avere l’educatore è la prudenza. Quasi tutti pensano che la prudenza sia la virtù di riuscire a rimanere nel giusto mezzo, senza sbilanciarsi, ma non è così.

La prudenza è la virtù di saper trovare il mezzo giusto per spostarsi dalla situazione in cui si è verso quella in cui si vuole andare.

Sbaglia chi pretende, pur vedendo bene dove vuole arrivare, di arrivarci subito. E’ necessario fare un’analisi corretta di dove si è, avere delle idee chiare su dove si vuole andare, decidere quale strada  prendere e soprattutto capire quanti passi si possono fare in un anno, quanti l’anno dopo e quanti l’anno dopo ancora.

E’ una grande responsabilità! Un ultimo consiglio per noi?

Per chi si occupa di persone, e in particolare di persone con difficoltà essendo questa la missione della Fondazione, il primo passo è camminare verso un’educazione che dia senso alle attività di socializzazione che si fanno. Un’educazione che punta verso la libertà e che quindi inviti a farsi carico della propria vocazione con responsabilità, a comprendere mano a mano che il limite può diventare un dono, a continuare a camminare e a capire che la vita è comunque un cammino e che lo scopo di questo cammino è il rapporto con gli altri.

Maurizio Millo ha fatto per molti anni l’educatore come capo-scout in tutte e tre le branche dell’associazione divendando poi  il responsabile nazionale della branca esploratori-guide (ragazzi dai 12 ai 15 anni)  e quindi il presidente del Comitato Nazionale dell’AGESCI.

Sul piano professionale è magistrato da ormai quaranta anni. In questo ambito ha in qualche modo realizzato una sintesi fra gli interessi educativi e quelli professionali facendo, tra i vari impegni,  per 14 anni il giudice per i minorenni e per 7 anni il presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna. Attualmente presidente della sezione GIP.

E’ sposato da oltre 40 anni ed ha tre figli ormai tutti (direi felicemente) sposati, tanto che ha (ben) sei nipoti.

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